Gino De Dominicis
Nicolas Bourriaud
"Gino De Dominicis lo spettacolo tragico della nostra impossibilita
di afferrare i segni dell'eterno"
Flash art, Milano, juin/juillet 1990
p.115-117
Ciò che rende difficile la lettura di opere come quelle di Gino De Dominicis
più che la struttura dell'opera in sé malgrado la sua reputazione
d'ermetismo - è il contesto sovraccarico e rumoroso nel quale la si percepisce.
Questa difficoltà comincia dunque con l'anacronismo, l'anonimato un po'
forzoso dello stile utilizzato, un anonirnato che diviene assai facilmente riconoscibile...
La seconda difficoltà di lettura proviene dal peso dello spazio di silenzio
che apre il sistema dell'artista italiano, silenzio avvicinabile ad una vera
e propria condizione claustrale, se si considerano gli annessi e connessi. Soprattutto,
non si tratta qui di ricorrere ad una retorica della presenza mistica, esecrabile
in sé benché inappropriata, poiché la spiritualità
di De Dominicis non si dà mai veramente come una trascendenza, anche
se neprende a prestito le forme. Le figure ieratiche che popolano il suo mondo
immobile sono delle apparizioni paradossali e ambigue, il loro contenuto spirituale
è senza posa contrastato, bloccato nel loro slancio celestiale dall'apparenza
ingrata, ripugnante e talvolta grottesca che esse assumono. Questi sacerdoti
elefantiaci, questi nasi-antenna smisurati, questi scheletri in pattini a rotelle
contrastano con la carica religiosa che sembrano mimare piuttosto che incarnare.
De Dominicis presenta delle figure intermedie fra il clownesco e l'essenziale,
che non ci sanno condurre all'illuminazione con la loro forza intrinseca: esse
non fanno che accendere in noi delle minuscole fiammelle di spiritualità
che solo il percorso globale della mostra potrà ricollegare insieme.
Il percorso al Magasin di Grenoble è di per sé eloquente: costruito,
secondo le indicazioni dell'artista, come un labirinto disseminato di radure,
che realizza metaforicamente il desiderio di fuorviare che anima De Dominicis,
e che è proprio di ogni percorso iniziatico.
La nozione di storia dell'arte che ci potrebbe guidare con più sicurezza,
la più operativa in questa espiorazione, sarebbe senza dubbio queila
di infra-minimo. Duchamp non ha mai scritto: "The great artist of tomorrow
will go underground", programma che De Dominicis applica con una singolare
ostinazione. Questa palla rossa poggiata al suolo, che il titolo ci indica come
sul punto di rimbaizare, mette bene in rilievo l'infra-minimo. O, se si vuole
seguire l'ermeneutica un po' più oltre, esso evoca la teoria induista
del Dharma, che postula che la realtà sia fatta da invisibili suture,
come un film mal montato. L'opera di De Dominicis ci obbliga in ogni caso a
uscire dal vocabolario e dai metodi della critica d'arte, per immergerci nella
decodificazione dei fenomeni culturali che non siamo più in grado di
ravvisare completamente: teologia assira e sumera, simbolismo delle tradizioni
ermetiche. Bisogna davvero intendere i suoi nasi smisurati come altrettanti
segni di chiaroveggenza e d'intuizione? Bisogna leggere i numerosi riferirnenti
a Gilgamesh come la messa in carica di una richiesta di immortalità?
Gilgamesh è 1'eroe solare per eccellenza delia mitologia sumera, ma puè
apparire qui una figura di accecamento: la saturazione è una delle chiavi
principali del labirinto dominiciano... Troppa visibilità, troppo silenzio,
troppa evidenza o troppo mistero, sono casi della figurazione che si equivalgono.
Un dipinto del 1986, senza titolo, ci mostra cosI un insieme di linee fonnanti
il disegno in prospettiva di una curiosa pista d'atterraggio gialla, che sormonta
un naso affilato ed una croce... L'ambivalenza di questo insieme di segni, la
loro reversibilità, ci permette di pensare che l'iconografia di De Dominicis
non sta in nulla di statico: a forza di evidenza e con l'ausilio di una semplicità
quasi medievale, egli svuota i segni del loro significato primario, li lascia
scaricare.
De Dominicis ci offre lo spettacolo tragico della nostra impossibilità
di afferrare i segni dell'immortalità. Disponibili, disarticolate marionette
che nessuna mano divina solleva, questi segni ci invitano non perè a
contemplarli, ma a rianimarli. In ciò, l'itinerario dell'artista segue
ancora la voce di Gilgamesh, la richiesta d'immortalità, che, aimeno
in arte, esige una reinterpretazione permanente. "Per eistere veramente,
si dovrebbe essere in grado di arrestarsi nel tempo", scriveva nel '69.
Il panorama che ci propone questa mostra, i cui pezzi più vecchi risalgono
agli anni Sessanta, traccia chiaramente le forme succcessive che il desiderio
di arrestare il tempo ha preso in De Dominicis: il fossile (lo scheletro pompeiano
folgorato dalla morte mentre porta il cane a passeggio), l'arresto sull'immagine
(la palla rossa), la statua degli adoranti, la purezza del cristallo, e infine
la metamorfosi, illustrata perfettamente da un quadro, datato 1986, con questa
fusione di figure dal lungo naso, grigiastre su fondo scuro.
Il problema teorico che solleva quest' opera tutta vòlta verso l'inattuale
è queibo della distanza da trovare oggi in rapporto aile immagini: come
ridonare loro un potere senza sprofondare nell'ideologia dell'aura, squalificata
nell' "epoca della riproducibilità tecnica"? Come ricostruire
un' iconoiogia che sia contemporanea, vale a dire attiva? Problema che il turbine
di segni di De Dominicis affronta come un gioco di scacchi, con un consumato
senso dell'artificio. Pura speculazione? Diciamo che questo pittore della trascendenza
impossibile rassomiglia ad un guardiano del faro, che invierebbe dei segnali
che spazzano l'orizzonte per dei battelli che forse non arriveranno mai. La
lezione da trarne è quella del Moby Dick di Melville: di fatto,
non v'è nulla da scoprire se non il mare, vale a dire la distanza percorsa.
(Traduzione dal francese di Marco Senaldi)